venerdì 12 dicembre 2008

› Proposte per il dopo-Gelmini

Si guarda oggi all’Università in due modi opposti. Il primo è come ad un ufficio di collocamento che “sistemi” la maggior quantità possibile di gente: i “clienti” in tempi di vacche grasse, i parenti in tempi di progressivo immiserimento. Il secondo è come ad un’istituzione pubblica da cui dipende la formazione della classe imprenditoriale, dirigente e professionale del paese e lo sviluppo della sua ricerca scientifica, tecnologica e umanistica.
Il primo modo corrisponde, grosso modo, a come la classe politica e l’opinione pubblica meridionali (ma non solo) hanno sinora guardato a qualsiasi ente pubblico. Una proiezione degli interessi della propria “famiglia”, a cui concorrono, in parti uguali, ma con colpe sociali progressivamente differenti, sia le classi agiate, sia il ceto medio, sia gli strati economicamente più bassi della popolazione. Queste tipologie sociali sono “cognitivamente cieche” ai problemi dell’efficienza della macchina pubblica, della qualità dei suoi operatori, della meritocrazia, del servizio pubblico svolto, etc. Non si rendono, cioè, neppure conto del danno che possono causare alle pubbliche amministrazioni. Vanno quindi bene tre maestri contemporanei per classe, ma anche qualche centinaio di professori universitari “impegnatissimi” nella cura di dieci studenti o una sfilza di bibliotecari nessuno dei quali può prendere libri perché non rientra “nelle loro mansioni contrattuali”.
Non si creda, tuttavia, che anche il secondo modo di guardare all’Università sia esente da vizi. Al contrario anche chi, a parole, crede nell’istituzione pubblica commette veri e propri “peccati politici mortali”: primo fra tutti quello di considerare lo scopo primario dell’Università l’aristocratica produzione di “eccellenze”. Lasciamo stare, per il momento, l’annoso problema di chi, come e quando sia autorizzato a definire il merito e l’eccellenza. Diciamo solo, a questo proposito, che è un problema complesso, sottovalutando il quale ci potremmo trovare nella stessa situazione in cui si è trovata la finanza cartacea: per decenni le imprese italiane hanno subìto le pessime valutazioni di quelle stesse banche e agenzie di rating multinazionali che sono fallite nel giro di una settimana, travolgendo migliaia di risparmiatori, vittime ignare quanto i nostri strumentalizzati studenti. Occorre imparare a diffidare dai pulpiti che predicano l’auto-eccellenza finanziaria e accademica! I processi valutativi ed autovalutativi sono sacrosanti ma devono, innanzitutto, mirare a capire se le risorse umane impiegate nella didattica e nella ricerca siano almeno adeguate a soddisfare il crescere della domanda di istruzione superiore che un’istituzione pubblica ha il dovere etico di promuovere come sua specifica vocazione politico-culturale, almeno dalla Rivoluzione francese in poi.
Fatte queste precisazioni veniamo ai fatti e alle prospettive che si potrebbero aprire a partire dalla discussione sui piani della Gelmini e la promessa ennesima riforma universitaria. Ora è il momento in cui l’Università può farsi sentire, smettendola di nascondersi dietro i “benevoli” cortei degli studenti e, in un certo senso, auto-smascherandosi.
Che Università vuole l’Università, i Rettori, la CRUI? Lo si dica pubblicamente e non nei confessionili con i sottosegretari! Qual è la gerarchia dei problemi più gravi dell’Università secondo l’Università stessa? Vogliamo partire dagli interessi reali, quelli cioè di milioni di studenti e docenti, o da quelli di minoranze bocciate alle elezioni e riciclate nelle piazze?
Se vogliamo partire dai primi mettiamo al primo posto l’esigenza di laureare in tempo e nel miglior modo possibile chi si iscrive all’Università. E qui troveremo delle soprese. Secondo i dati OECD (Organisation for Economic Cooperation and Development) nell’Università pre-riforma – quella sì dei veri Baroni – solo il 30% arrivava alla laurea, mentre dopo la riforma del 3+2, quella che non piace alle “famiglie”, ci arriva il 50%. Ce lo dice la stessa Gelmini sulle sue “Linee-Guida” che si possono leggere sul sito MIUR. Tuttavia – stranamente – ne parla come di un dato negativo! Forse nessuno gli ha detto che sui grandi numeri della statistica sociale il 20% è tanto. Un aumento del 20% in pochi anni dovrebbe meritare una medaglia al merito: qualunque impresa pubblica che in questi anni avesse ottenuto un simile risultato (ma non ce n’è neppura una, ci sono solo imprese che producono miliardi di debiti senza alcun risultato positivo, come l’Alitalia) sarebbe portata ad esempio. Naturalmente all’interno del governo dell’Università sappiamo che non bisogna affatto riposare sugli allori. Il 50% di successi è giusto considerarlo ancora poco perché l’Università aristocratica dei veri Baroni della prima Repubblica aveva toccato il fondo con il suo 30%. L’Italia ha un grande bisogno di laureati! Quindi bisogna continuare nella riforma e migliorarla.
Come? Facilissimo. La smettano il governo e l’opposizione di essere d’accordo sulla critica ai Corsi di laurea e alle Facoltà fantasma. Ci sono 37 corsi di laurea con un solo studente e 327 facoltà che non superano i 15 iscritti come dice la Gelmini? Chiudeteli subito! Allo stesso modo ci sono decine di Facoltà e Atenei virtuosi in Italia che hanno tantissimi iscritti, tanti laureati, bilanci in ordine ma pochissime risorse. Invece di ideare barocche riforme sui “requisiti minimi” o improbabili premialità dell’eccellenza virtuale auto-attribuita, basta istituire una Robin tax dell’Università: togliere a chi non ne ha bisogno per dare a chi ne ha bisogno.
Un’altra proposta su cui tutti dovrebbero essere d’accordo? Smettiamo almeno di premiare i docenti che non producono alcun tipo di ricerca, nè d’eccellenza e neppure di decenza. Stante alle statistiche c’è circa un 30% di professori, perlopiù ultracinquantenni, che negli ultimi tre anni non ha pubblicato nulla o quasi. Per contro dall’Università dei Dottorati (non esistono solo i luoghi di perdizione!) sono emersi un certo numero di giovani studiosi che pubblicano importanti libri ed articoli su riviste prestigiose e parlano nei Convegni internazionali più selettivi, riscattando l’immagine dell’italietta familiar-provinciale. Naturalmente non tutti i nostri “precari” della ricerca sono così bravi. Ma almeno questi avranno il diritto di entrare al posto dei docenti improduttivi?
Vogliamo contribuire a sfatare un’altra stupidaggine che politici, giornalisti e professori vanno ripetendo senza ritegno? Sempre secondo i dati OECD l’Italia si trova agli ultimissimi posti sia per attrazione di studenti stranieri sia per esportazione di studenti italiani all’estero. Altro che “fuga dei cervelli”! L’Italia attrae turisti ma non studenti, esporta scarpe e vestiti ma non talenti scientifici. D’altrocanto perché dovremmo attrarre stranieri? Organizziamo corsi in inglese per studenti africani, cinesi, arabi? Gli forniamo opportunità logistiche, posti-letto, laboratori e biblioteche sempre aperte? E perché dovremmo esportare talenti? Qui farebbero bene a riflettere tutti i precari universitari che sembrano clonati dalla logica del posto fisso che ha sempre ispirato quei baroni vecchi e nuovi che pure pretendono di criticare ma a cui, alla fine, finiscono col somigliare. Tutti, a parole, sono d’accordo sui “concorsi perfetti”, puliti e liberi. Ma sappiamo cosa significa veramente competere senza posti riservati e “membri interni”? Sappiamo che accettare la competizione significa gareggiare con i matematici indiani, gli informatici coreani o gli ingegneri finlandesi? Occorre attrezzarsi per una reale competizione dei migliori, un’eccellenza (questa sì) vera fondata sul cosmopolitismo della formazione, sulla sprovincializzazione delle abitudini culturali e sulla fine di ogni mammismo culturale e scientifico.
Un’ultima proposta che rivolgo esclusivamente ai giovani senza pregiudizi e in buona fede: perché non proviamo a considerare il progressivo esaursi del turn-over nel pubblico impiego la più grande opportunità che si sia mai presentata per il futuro dei laureati meridionali? Faccio il Preside di una Facoltà umanistica che produce molti e bravi laureati in Formazione, Comunicazione, Psicologia, Turismo e Scienze Cognitive. I settori più vivi della cultura sociale e tecnologica contemporanea. Quelli che producono servizi avanzati per le società di massa. E, tuttavia, gli studenti e i loro genitori non fanno che chiedermi a quali posti fissi giungeranno a partire dalle lauree acquisite? Il danno che questi ragazzi hanno subìto da questa “ideologia del collocamento” perpetrata sia da destra che da sinistra, dalla cultura sindacale come da quella familiare, è irrepararabile? Possibile che anche i professionisti del lavoro autonomo dei servizi non capiscano il tesoro che sta sepolto sotto i loro piedi? Nei prossimi venti anni – lo vogliano o no le piazze – tutti gli apparati statali si saranno liberati finalmente dai pesi inutili accumulatisi nel secolo precedente. Le Università degli anni duemila non si serviranno più di impiegati statali addetti alle pulizie, alla ristorazione, alla gestione delle biblioteche, al funzionamento dei laboratori, all’efficienza dei processi di informazione, consulenza e comunicazione, da pagare a vita. Spariti i posti fissi non spariranno, tuttavia, anzi si accresceranno enormemente, le esigenze di servizi lasciati vuoti. Le incalcolabili somme che la liberazione dei posti a vita produrranno potranno rendersi finalmente disponibili non più per coprire le patetiche “piante organiche” ma per essere affidate ad efficienti imprese professionalmente dedicate ai servizi che solo voi laureati avrete titolo a produrre. Un’ultima provocazione: occorrono leggi che regionalizzino queste opportunità. Lo hanno capito al Nord, guai se non lo capissero i giovani laurati e i politici meridionali. Occorrono provvedimenti che agevolino o rendano quasi obbligatorio l’affidamento della cosiddetta “esternalizzazione” dei servizi a chi si è formato e ha saputo “far impresa” nel territorio in cui ha studiato. Altro che “posto fisso”, per povero e maledetto che sia!