mercoledì 25 maggio 2011

Il nepotismo universitario, l’ascensore sociale e il ruolo della stampa

Ho molto riflettuto se dedicare un intervento pubblico ad un articolo di “Centonove” del 20 Maggio 2011 (p.19) che mi ha stupito perché non contiene nulla di ciò di cui avevo parlato con l’inviato del giornale venuto a trovarmi (problemi di riforma universitaria, scomparsa delle Facoltà sostituite dai Dipartimenti, sedi esterne, ed altri simili “quisquiglie”) e che invece trovo tutto scandalisticamente proiettato su presunti “veleni in facoltà” di cui nessuno in realtà si era accorto. Ho capito solo dopo che pompare ad arte una normale e noiosa divergenza di opinioni sulle procedure burocratiche dei corsi di laurea aveva il solo scopo di introdurre un secondo “pezzo” appiccicato al primo senza alcuna logica se non quella di cercare di macchiare eticamente la mia immagine, quella della mia famiglia e quella dei miei più bravi allievi. Riconosco la mia stupidità e mi complimento con il trash-journalist che ha saputo così abilmente condurre in porto questo “favoloso” scoop contro il mortale pericolo nepotistico costituito da un barone senza scrupoli completamente dedito a procacciarsi vantaggi personali violando tutte le leggi e tutte le etiche virtuose. Alla fine ho deciso, quindi, di onorare questa memorabile impresa intervenendo non tanto per ribattere ad un miscuglio di affermazioni talmente tendenziose (usando una obsoleta tecnica retorica che mischia cose vere e cose false per affermare tesi sempre false) da non meritare “risposta”, quanto per raccogliere il tema del secondo articolo – il nepotismo e la “questione morale” universitaria – che certamente è molto importante e merita una trattazione serena proprio adesso che l’Università italiana sta iniziando il suo irreversibile processo riformatore.

Premetto subito a scanso di equivoci: non ho nulla contro i figli dei professori universitari. Come in tutte le categorie professionali ce ne sono di bravissimi, la cui unica croce è di portare il nome dei loro padri (o madri), e ce ne sono di ignoranti da far arrossire di vergogna i settori scientifici che li hanno promossi sul campo. Perdere i primi è un impoverimento culturale imperdonabile per le Università. Evitare i secondi è una necessità per la competizione scientifica. Tutto ciò, naturalmente, nel rispetto delle leggi, della morale e degli individui.

Cominciamo con le leggi. Sino a tutto il 2010 nessuna specifica legge sull’Università regolava i rapporti di parentela all’interno degli Atenei. Dal 29 Gennaio 2011 è entrata in vigore la rigorosissima legge Gelmini. Criticabile o meno (io l’ho sempre difesa) nega (art. 18 comma 1b) che possano essere chiamati professori associati o ordinari, assegnisti, ricercatori a tempo determinato o contrattisti “che abbiano un grado di parentela o di affinità, fino al quarto grado compreso, con un professore appartenente al dipartimento o alla struttura che effettua la chiamata ovvero con il rettore, il direttore generale o un componente del consiglio di amministrazione dell'ateneo”. Il “quarto grado” comprende sino ai cugini. Non sono ovviamente inclusi – come in nessuna altra parte del mondo – i rapporti di non-consanguineità: mogli/mariti, conviventi, o qualsiasi altro rapporto codificato o meno che sia frutto di una libera scelta tra pari. Il motivo è ovvio: si tratta per la maggior parte di casi di rapporti che intervengono già tra studiosi del tutto indipendenti. È noto, anzi, che negli Stati Uniti – patria riconosciuta del puritanesimo più oltranzista – le Università che vogliano accaparrarsi le prestazioni di un professore particolarmente prestigioso per aumentare la competitività della struttura spesso offrono un contratto di docenza (o ricerca) anche a chi gli si accompagna: mogli/mariti, conviventi o allievi o altro che siano. In sintesi: con le nuove leggi sappiamo intanto, al di là delle opinioni personali, certamente ciò che si può e ciò che non si può fare.

Quando entriamo nelle questioni etiche le cose si complicano molto. L’opportunità morale dei comportamenti richiede qualcosa di più, ed anche di diverso, che non la semplice osservanza delle leggi. Per esempio richiederebbe che i rapporti parentali sino al quarto grado siano del tutto esclusi almeno dallo stesso settore scientifico-disciplinare. I figli dei professori universitari, restando nel rispetto delle leggi, potrebbero insegnare in altri Dipartimenti diversi da quelli del padre/madre, oppure in altre Università: ma farlo, comunque, nello stesso settore scientifico-disciplinare del padre/madre non è certo una buona scelta. Certo si potrebbero pure giustificare in astratto (per es. per giovani straordinariamente bravi) delle circoscritte eccezioni, considerato che la legge (purtroppo) non lo impedisce: ma essere giudicati da professori a loro volta giudicabili dal proprio genitore dovrebbe essere considerato comunque sconveniente. Quando poi padri/madri e figli risiedono nella stessa struttura e appartengonono anche allo stesso settore scientifico-disciplinare la nitidezza del profilo etico appare ancor più controversa. Chi si trova in queste condizioni dovrebbe perlomeno esercitare prudenza a lanciare anatemi morali contro il nepotismo imperante! Infine coloro i quali sono padri/madri di figli che risiedono nella stessa struttura, appartengono allo stesso settore scientifico-disciplinare e condividono, inoltre, curriculum entrambi scadenti, non hanno proprio alcun alibi e farebbero bene a passarsi una mano sulla coscienza e a ripensare con mente serena quanto tutto ciò possa nuocere a loro e ai loro figli medesimi. La reputazione scientifica è nell’Università il valore etico più alto. La riuscita scientifica di un giovane è il vero ed unico metro della morale accademica. E le conseguenze di una bocciatura etica di tal fatta ri-mordono, col tempo, ben più di quelli di una bocciatura giuridica.

Il nepotismo accademico, tuttavia, non esaurisce affatto la questione morale nelle Università: c’è qualcosa di eticamente ben più importante che tutti fanno finta di dimenticare, soprattutto i giornalisti. Credo, infatti, che l’autentica patente di eccellenza morale del “baronato” universitario sia la promozione del cosiddetto “ascensore sociale”. La capacità, cioè, di garantire A TUTTI gli studenti MERITEVOLI non solo un supporto scientifico e culturale di alto livello ma anche un sostegno morale che li protegga dall’emarginazione sociale, dall’esclusione delle opportunità, dalle procedure di mobbing che scattano quando qualcuno che non appartiene alla casta degli “eletti” comincia a scalare le difficili vette della carriera universitaria.
Qualcuno pensa che gli eletti siano solo i figli dei professori universitari. E questo è l’effetto del trash-journalism che abbaglia tutti con lo scandalismo d’accatto ma che non si accorgerebbe mai – nemmeno sbattendoci il muso contro – che il vero problema delle nostre Università è la mancanza di circolazione sociale, la reticenza a far accedere alla carriera universitaria i meritevoli che non appartengono ai ceti più elevati, ai potentati economici e politici, ai frequentatori esclusivi dei salotti delle caste professionali. A scanso di equivoche interpretazioni estremistiche vorrei dire che non solo non ho nulla contro la grande cultura borghese ma che, anzi, la considero il vero motore trainante di qualsiasi paese moderno destinato a primeggiare. C’è, tuttavia, una bella differenza tra la cultura della grande borghesia liberale e la difesa ad oltranza dei privilegi delle caste professionali. E l’Università è il terreno dove questo fenomeno meglio risalta. La stessa nozione storica di “borghesia” dovrebbe essere costitutivamente connessa con l’idea della circolazione culturale, sociale ed economica, quindi, per quel che ci riguarda, con il perfetto funzionamento dell’“ascensore sociale” che permetterebbe a tutti i giovani più bravi di arrivare ai vertici. Mi chiedo, tuttavia, qual è, nelle nostre Università, il grado di circolazione culturale, di ricambio sociale, di reale successo dei giovani meritevoli indipendentemente dalle loro origini ed appartenenze sociali?
Credo che la risposta sia, per tutta l’Università italiana, deludente. L’Accademia resta una struttura chiusa, respingente. Permette, forse, di laureare (molto meno, comunque, che negli altri paesi civili) anche chi non è nelle primissime posizioni sociali. Ma quando questi laureati cominciano a trasformarsi da bravi ragazzi in eccellenti e competitivi ricercatori ecco scattare l’altolà! È questo è appunto il luogo di saldatura tra il trash-journalism e il conservatorismo universitario: la spazzatura e l’aristocrazia si stringono la mano per fermare i processi di reale rinnovamento e di autentica circolazione culturale e sociale dei saperi. Cioè la vera morale!
Una ricetta, quindi, per un codice etico universitario che incida realmente sui processi culturali, economici e sociali? Riuscire ad aprire le carriere universitari a tutti gli allievi veramente meritevoli, guardando solo alla loro competitività scientifico-culturale, offrendo loro tutte le opportunità possibili e abbandonando ogni pregiudizio sociale sulla provenienza! Se non lo facessimo saremmo oltretutto stupidamente suicìdi: sarebbe come rinunciare ad assumere Ronaldo nella nostra squadra di calcio sol perché viene dalle favelas brasiliane!
Lo ha fatto l’Università di Messina? Ha promosso la morale del merito attraverso l’uso dell’“ascensore sociale”? La mia opinione in questi sette anni di presidenza e di partecipazione al governo dell’Università è: l’ha fatto ma poco; molto più di prima ma molto meno di quanto potrebbe. Certo l’atteggiamento accademico aristocratico – forse grazie anche alla crisi economica – è finalmente considerato oggi non solo inadeguato ma addirittura patetico. C’è, tuttavia, ancora troppa retorica e poca concretezza: il passaggio dai lenti mutamenti di opinione ai processi operativi realmente virtuosi è ancora lungo e richiede un nuovo spirito di governo dell’Università. Uno spirito di cui la riforma potrebbe favorire la nascita ma che il conservatorismo accademico da una parte e un giornalismo culturalmente arretrato dall’altra potrebbero portare inopinatamente ad una morte prematura.